Il caso FTX: centralizzazione contro decentralizzazione nel mondo delle criptovalute

caso ftx decentralizzazione

Il caso del crollo di FTX, ovviamente, ha scosso il mondo delle criptovalute, dagli operatori agli utenti, generando una comprensibile ondata di paura e diffidenza. Il FUD risultante, come c'era da aspettarsi, ha chiaramente influenzato il mercato delle criptovalute trascinando i valori verso il basso.

Molte persone hanno scritto su questa vicenda, dai giornali più blasonati a una serie di commentatori improvvisati, sempre molto presenti sul web, diffondendo anche informazioni tecnicamente non corrette.

È opportuno mettere le cose in chiaro, sia perché il caso in sé presenta diversi aspetti controversi, sia perché in gioco ci sono anche i risparmi di una vita di persone che si sono affidate senza colpa a una piattaforma che si presentava come una delle più importanti e affidabili del mercato .

Caso FTX: lo scambio avvia il procedimento del capitolo 11

La prima questione riguarda il cd Capitolo 11 procedura, avviata volontariamente dal gruppo negli Stati Uniti (più precisamente presso la Corte Federale del Delaware), che alcune testate giornalistiche hanno impropriamente definito fallimentare. In realtà, i procedimenti del capitolo 11 ai sensi del titolo 11 del codice statunitense possono essere paragonati a procedura di amministrazione controllata

Infatti, la procedura fallimentare in senso stretto è quella disciplinata dal Capo 7 dello stesso Titolo 11.

Non si tratta, quindi, di una liquidazione totale di beni e attività, volta a ridistribuire il ricavato ai creditori, secondo il loro grado di priorità, ma un processo di riorganizzazione aziendale che viene gestito da un commissario appositamente nominato.

Senza entrare troppo negli aspetti tecnici, lo scopo di questa specifica procedura è quello di tentativo di rimettere in carreggiata l'azienda attraverso l'eliminazione di rapporti inutilmente gravosi, la liquidazione di asset eventualmente non strategici e, in ultima analisi, il recupero di risorse ove possibile, e così via, il tutto al fine di rimettere l'azienda in condizione di operare efficacemente sul mercato. Il primo passo di questa procedura è il blocco di beni, conti e relazioni fino a quando non sarà completata una valutazione della situazione complessiva.

La riuscita o meno dell'operazione dipende ovviamente dall'entità degli asset disponibili, dalla mole dei debiti accumulati e da una miriade di altri fattori patrimoniali e produttivi che devono essere oggetto di rigorosa ricostruzione.

Nel caso di FTX, è importante tenere presente che stiamo parlando di una galassia di più di 130 entità sparse in tutto il mondo, di cui si sa poco sui rapporti di gruppo e di controllo e secondo un organigramma tutt'altro che facile da ricostruire con precisione.

Qui sta un aspetto che merita riflessione: e cioè che il procedimento di cui al Capitolo 11 è stato avviato non solo con riferimento a Alameda Research LLC (società di diritto statunitense che costituisce la capogruppo dell'intero gruppo), ma anche per molte delle entità non di diritto statunitense.

La complessa rete di FTX

Basti ricordare che la società proprietaria della piattaforma di trading rivolta alla clientela internazionale al di fuori degli Stati Uniti, FTX Digital Markets, è una società di diritto bahamiano, con sede a Nassau, e che per tale società, come per ogni altra società in gruppo, è stata depositata apposita istanza autonoma Chapter 11, sempre presso la Delaware Court.

Analoga istanza autonoma, ad esempio, è stata depositata presso lo stesso tribunale statunitense anche per la società di diritto cipriota FTX EU Ltd, alla quale era stata originariamente rilasciata una licenza da parte delle autorità statali europee che consentiva al gruppo di operare all'interno dell'Unione Europea. Una licenza che, secondo il sito della SEC cipriota, al momento è sospesa.

Ora, la complessa struttura del gruppo (come detto, più di 130 società coinvolte!) e una situazione di palese incertezza sull'entità del passivo (si parla di un passivo che oscillerebbe in un range molto ampio, tra 10 e 50 miliardi) suggeriscono che, anche nella più ottimistica delle prospettive, il procedimento richiederà molto tempo prima che sia possibile capire se si intraveda una luce in fondo al tunnel o se, come appare più probabile, si devono passare a una procedura del capitolo 7, vale a dire, fallimento in piena regola.

Tuttavia, l'interazione tra i procedimenti avviati in Delaware e le giurisdizioni in cui ricadono entità non statunitensi è cruciale. Questo perché, almeno sulla carta, l'ammissione al Chapter 11, e la conseguente adozione di un eventuale congelamento di capitali, beni o altro, da parte della curatela, su società estere (come, ad esempio, quella cipriota), non poteva essere legittimamente contrari agli utenti (creditori) che non sono soggetti alla giurisdizione degli Stati Uniti.

A quest'ultimo, infatti, non potrebbe essere negato il diritto di avanzare legittime pretese nei confronti di una qualsiasi delle singole società del gruppo, anch'esse non soggette alla giurisdizione statunitense, rivolgendosi ai tribunali naturalmente competenti a conoscere di tali rapporti.

E infatti, era giusto un paio di giorni fa che gli organi delegati dalla Securities Commission delle Bahamas alla procedura fallimentare per la liquidazione di FTX Digital Markets (che è una delle principali entità del gruppo e che, come detto, è una società bahamiana di diritto bahamiano, con sede a Nassau) hanno sconfessato il validità del procedimento Chapter 11 avviato in Delaware e ha avviato un'azione presso la US Bankruptcy Court di New York al fine di ottenere dati e documentazione e bloccare qualsiasi trasferimento di asset e fondi della società.

Un puzzle difficile da ricomporre, questo è certo. E non c'è dubbio che l'incidente offre argomenti ai detrattori del mondo cripto.

La centralizzazione assume la natura della tecnologia crittografica e blockchain

Tuttavia, c'è un aspetto di fondamentale importanza che non dovrebbe essere trascurato. Vale a dire che un caso come FTX è un risultato diretto del processo di centralizzazione spinta determinato dalla crescita vertiginosa delle principali piattaforme di scambio.

Cosa significa questo? Che nel momento in cui gli utenti affidano le proprie risorse (siano esse in valuta fiat o criptovaluta) a una terza parte per gestirle per loro conto, non importa se poi scambiano criptovalute e le allocano su un portafoglio (di cui conserveranno e accederanno alle chiavi) , tale soggetto rimarrà comunque un intermediario, esattamente alla stregua di un intermediario bancario o finanziario.

La conseguenza è che nel momento in cui mi affido a un tale intermediario, il paradigma della fiducia cambia completamente. Non è più centrata, infatti, sulla rete blockchain e sulle sue caratteristiche tecnologiche, ma è centrata sulla fiducia che si decide di accordare a quell'intermediario.

Quel principio che “il codice è la legge” non lavora più. La regola qui è quella di natura negoziale dettata dal rapporto tra gli utenti e la piattaforma.

Per chiarire ulteriormente, se effettuo una transazione on-chain, peer-to-peer (come il trasferimento di criptovalute da un portafoglio al portafoglio di qualcun altro) attribuisco fiducia a un libro mastro distribuito, supponendo che sia in grado di verificare la capacità del mio portafoglio e convalidare la transazione, con un grado di certezza (anche in termini di data e ora), ecc.

Al contrario, se effettuo una transazione tramite un intermediario (come potrebbe essere un exchange), confido che quell'intermediario, avendo ricevuto i miei fondi (crypto o fiat), eseguirà gli ordini impartiti e non farne un uso improprio. E cioè, confido che sarà in grado di farlo conservarli in modo sicuro, che lo farà non usarli per investimenti assurdamente rischiosi e così perderli, o peggio comprarsi una villa alle Bahamas, riempire il garage di Lamborghini o fare sesso, droga e feste rock 'n roll lì.

Che è esattamente lo stesso tipo di fiducia che do a una banca: confido che i miei soldi siano custoditi in un caveau con sicurezza armata, che gli investimenti rischiosi soddisfino criteri chiari e siano ragionevolmente sicuri. Questo, almeno, in un mondo ideale.

La differenza è che in quest'ultimo caso esistono se non altro regole chiare (salvo la possibilità di eluderle o violarle) che impongono agli intermediari bancari il possesso di requisiti professionali e patrimoniali a garanzia della clientela, e una miriade di regole di comportamento che , almeno sulla carta, dovrebbe tutelare il risparmiatore che si affida a una banca. E quando leggiamo nel nome, sempre sulla carta, la parola “banca”, dovremmo essere indotti a confidare che dietro quella parola ci sono professionalità, fondi e beni a garanzia di ogni rischio, e che ci sono organi di controllo pronti ad intervenire (presumibilmente ) in caso di problemi.

Regolamentazione più severa o corsa al decentramento?

Cosa che oggi non esiste (o almeno non ancora) per le piattaforme di scambio, le quali, come tutti sappiamo, per operare non hanno bisogno di particolari requisiti di patrimonializzazione o professionalità, non sono vincolate a come impiegano e investono i propri fondi, né sono soggetti a determinati parametri di rischio, e non sono soggetti a specifiche forme di vigilanza da parte delle autorità pubbliche a meno che non stiano gestendo quelle che in sostanza possono essere qualificate come transazioni di attività finanziarie (o titoli).

Quindi, in conclusione, quando i casi come FTX oppure, tornando indietro nel tempo, Mt. Gox, o Quadriga CX si verificano, cioè casi di exchange centralizzati de facto che “esplodono”, qualunque sia il motivo, trascinando con sé gli asset virtuali degli utenti, la questione centrale non è che gli asset crypto siano più o meno intrinsecamente rischiosi e volatili.

Il punto cruciale è che la fiducia che si ripone in soggetti che arrivano a raccogliere sul mercato patrimoni di risparmiatori e investitori miliardari ha un presupposto puramente reputazionale, ma non è assistita da concrete forme di tutela, né regolamentari né finanziarie.

Rispetto a casistiche di questo tipo, il problema da affrontare e risolvere, quindi, non è quello della regolamentazione o dell'introduzione di limiti normativi nell'uso e nella creazione di asset crittografici o delle strutture digitali utilizzabili nelle attività che può avere un significato finanziario.

Il problema da risolvere a livello regolamentare è quello dell'attendibilità di soggetti che si rivolgono al mercato per sollecitare una platea di risparmiatori o investitori non professionali ad affidare loro risorse, anche se costituite da asset crittografici, e che questi soggetti che vanno al mercato siano vincolati da regole di comportamento chiare e ferree, perché l'impatto sociale che si genera quando si mettono in gioco cifre a nove cifre può essere distruttivo e questo non può essere ignorato. 

Il nodo, quindi, non sta nella decentralizzazione o nella natura deregolamentata e difficilmente regolabile (se non a rischio di compressione ingiustificata delle libertà individuali) delle criptovalute e delle tecnologie di registro distribuito. Il vero nodo sono quegli enti che, non solo accentrano, ma, dati gli importi stratosferici che gestiscono, accentrano la gestione di masse di interessi e risorse che appartengono a grandi quantità di individui.

In conclusione, legislatori, regolatori e banchieri centrali, piuttosto che strapparsi i capelli e lanciare allarmi sulla volatilità delle criptovalute e sui pericoli della blockchain farebbero meglio ad accendere i riflettori sul potenziale fattore di rischio rappresentato da questo tipo di attori che ora concentrano nelle loro mani un enorme potere economico.

E la storia ci insegna che quando un vasto potere è concentrato senza controllo nelle mani di pochi, quasi mai finisce bene.

Fonte: https://en.cryptonomist.ch/2022/11/18/the-ftx-case-centralization-vs-decentralization-in-the-crypto-world/